mercoledì 6 gennaio 2010

Coloni americani vs nativi: lo scontro di due culture




da: http://www.terranauta.it

Articolo di Francesco Bevilacqua

Mentre scrivo è il 29 dicembre. La stessa mattina di 119 anni fa si compiva uno dei più orrendi e infami massacri della sanguinosa storia americana: i soldati del maggiore Whitside aprivano il fuoco con le loro micidiali mitragliatrici Hotchkiss sui membri della tribù Miniconjou di Piede Grosso, la maggior parte dei quali donne, bambini e anziani, impossibilitati a difendersi poiché la sera prima erano stati privati delle armi e dei cavalli. Il bilancio non ufficiale parla di circa 300 morti, in quella che ancora oggi viene considerata una battaglia, nonostante si sia trattato solo e soltanto di un tiro al bersaglio e i pochi soldati americani morti siano caduti sotto il fuoco amico. Quel tragico avvenimento segna la fine del trentennio della “soluzione finale” – come la chiama Dee Brown nel suo celeberrimo libro intitolato proprio Seppellite il mio cuore a Wounded Knee –, ovvero quelle tre decadi in cui la pratica del colonialismo interno tanto cara alla dottrina Monroe venne applicata con più abnegazione e intransigenza, nel nome di quel destino manifesto che ancora oggi gli Stati Uniti utilizzano, seppur con diverse forme di propaganda, come scusa per espandere i loro interessi nel mondo.
Se i coloni del diciannovesimo secolo erano animati da una sorta di arrogante senso di superiorità – derivante un po’ dal retroterra rigidamente puritano da cui provenivano, un po’ da un presunto primato culturale e spirituale rispetto ai nativi –, oggi l’eccezionalismo americano è un mero pretesto che cela mire economiche e geopolitiche.
Tralasciando in questa sede le implicazioni più recenti, vorrei concentrarmi brevemente su quel funesto trentennio durante il quale non solo due popoli si contesero con le armi una grande terra, ma si scontrarono e confrontarono due civiltà dalle anime totalmente antitetiche.
Una delle differenze che maggiormente demarcano questa opposizione è proprio il radicamento verso la Terra e il rapporto con essa. I coloni americani, già deterritorializzati in quanto calati in un contesto che non apparteneva a loro e animati da una ferma volontà di rottura con il proprio paese d’origine, avevano un approccio decisamente materialista verso il suolo che hanno mangiato ai nativi nei corso dei quattro secoli di colonizzazione: per loro l’unica cosa che contava erano gli acri di campi, le miglia di piste e il numero e le dimensioni delle città che venivano costruite. Nulla era la considerazione per chi abitava quel luogo prima di loro, esseri senzienti o meno.
La battaglia di Little Big Horn, vinta dai Lakota, si svolse nell'ambito della guerra della Black Hills
Per i nativi invece il valore della loro Terra non era quantificabile né tanto meno monetizzabile e un tale pensiero era addirittura illogico, non contemplato dalla loro cultura. A questo proposito sono emblematiche le parole di Capo Giuseppe dei Nez Perces, rivolte al governatore americano che gli proponeva un trattato con cui negoziare la proprietà della loro Terra: «La Terra e io siamo dello stesso parere, le dimensioni della Terra e le dimensioni dei nostri copri sono le stesse». Neanche il più convinto degli ecologisti profondi saprebbe forse trovare un modo così efficace e al tempo stesso semplice per spiegare il rapporto simbiotico che legava queste genti al suolo che calpestavano e che, come loro stessi rimarcavano – «Io non ho mai detto che la Terra è mia per farne ciò che mi pare, l’unico che ha il diritto di disporne è chi l’ha creata», continuava Capo Giuseppe –, non era una loro proprietà ma un dono del Grande Spirito di cui usufruire secondo le proprie esigenze.
Il concetto di limite, collegato a quello di necessità, era fondamentale per i nativi. Non si abusava mai di quello che la Terra offriva e veniva consumato solo ciò che era strettamente necessario alla sopravvivenza. I bisonti abbattuti venivano sfruttati in ogni loro parte – la carne per l’alimentazione, la pelle per riscaldarsi, le corna e le ossa per costruire utensili – e all’uccisione seguiva una particolare cerimonia animata dai sentimenti di rammarico per la morte dell’animale e di gratitudine per il sostentamento che esso offriva. La caccia in generale era caratterizzata da una forte ritualizzazione e anche dal punto di vista biologico si inseriva in un ciclo naturale perfettamente equilibrato.
Il concetto di preservazione, opposto allo spreco, era applicato anche agli uomini: i conflitti fra le diverse tribù avvenivano spesso ma non erano quasi mai cruenti e mortali; durante la lotta si usava “contare i colpi” – ovvero avvicinarsi il più possibile e colpire – anziché abbattere l’avversario, sia per dimostrare valore in battaglia – l’avvicinamento e la messa a segno del colpo ravvicinato erano molto più difficili dell’assestamento di un colpo, pur mortale, da grande distanza – sia per fare sì che scaramucce dovute a questioni in fin dei conti secondarie non causassero morti inutili, gravando sulle forze della tribù.
Questa ritualità fu ovviamente abbandonata nel corso delle guerre combattute con i bianchi, i quali non conoscevano affatto il valore e l’etica guerriera che era invece fondamentale per i nativi. Ciononostante, furono diverse le battaglie che gli indiani vinsero, grazie a un’abilità in combattimento e a una conoscenza del territorio che sopperivano all’inferiorità dal punto di vista delle armi e degli equipaggiamenti. La più celebre è certamente la battaglia di Little Big Horn, in occasione della quale i Lakota inflissero una storica sconfitta all’esercito americano guidato dal tenente colonnello Custer, che seguì di pochi giorni un’altra grave disfatta riportata dalle truppe del generale Crook sul fiume Rosebud.
Cavallo Pazzo, fu un grande condottiero dei Lakota Oglala e ultimo capo, insieme a Toro Seduto, a preferire la libertà e rifiutare incondizionatamente il confino nelle riserve.
La sconfitta di Little Big Horn ebbe diverse conseguenze, che riflettono abbastanza bene l’indole e l’approccio dei due popoli. Prima di tutto, dopo anni di angherie ed eccidi (il massacro del Sand Creek risale a 12 anni prima, la strage del Washita a 8 anni prima), il governo americano parlò di brutalità e crudeltà dei Lakota, i quali dopo la battaglia compirono le uccisioni e le mutilazioni rituali, considerate inaccettabili dal punto di vista militare e culturale dagli occidentali. La reazione più istintiva degli americani fu poi ancora peggiore: non poterono accettare di essere stati sconfitti da “selvaggi”, da una piccola minoranza che da decenni cercavano di spazzare via con la loro colonizzazione interna. La guerra della Black Hills – nell’ambito della quale si svolse la battaglia di Little Big Horn – fu comunque vinta e gli Stati Uniti riuscirono a sfruttare i giacimenti auriferi situati nel territorio sacro delle Paha Sapa, ma il valore storico e culturale di quell’episodio è vivo ancora oggi.
L’artefice di quella grande vittoria fu Cavallo Pazzo, grande condottiero dei Lakota Oglala e ultimo capo, insieme a Toro Seduto, a preferire la libertà e rifiutare incondizionatamente il confino nelle riserve.
Qualche giorno fa è stata inaugurata in South Dakota la statua più grande del mondo. La sua realizzazione – ancora incompiuta – è curata dallo scultore Korczak Ziolkowski (deceduto alcuni anni fa) e dalla sua famiglia e raffigura proprio Crazy Horse. Ruth, moglie di Korczak, ha rifiutato diverse volte un contributo statale di circa 10 milioni di dollari per il compimento dell’opera, nonostante per il suo completamento ci sia bisogno di oltre 16 milioni. Non ha potuto accettare soldi da chi, poco più di un secolo fa, ha compiuto uno dei più grandi genocidi della storia nel bel mezzo della “terra delle opportunità”, che ha comprato nel corso degli anni con sangue e oro. Nonostante rifiutando quel contributo Ruth Ziolkowski abbia probabilmente rinunciato alla sola possibilità di portare a termine il lavoro del marito, probabilmente ha fatto la scelta giusta. D’altra parte, come disse proprio Cavallo Pazzo, «non si vende la Terra sulla quale la gente cammina».

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